E adesso attaccatevi al Trump!

È successo veramente: il 9 novembre Donald Trump è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, conquistando la Casa Bianca assicurandosi 306 grandi elettori e succedendo a Barack Obama. Contro ogni previsione, il Tycoon di New York è riuscito nell’impresa; basti pensare che il New York Times dava alla rivale Clinton l’84% delle possibilità di trionfare, l’Huffington Post addirittura il 98%.

Abbiamo assistito successivamente ad una giornata di lutto “internazionale”: i discorsi di congratulazioni della maggior parte dei premier mondiali sono stati molto freddi, la borsa sarebbe dovuta crollare da un momento all’altro, la gente ha iniziato a paventare scenari da terza guerra mondiale e a definire gli Americani un popolo di ignoranti e di razzisti. Eppure quando Obama ha trionfato nel 2008 e nel 2012 prendendo i voti dei cosiddetti “ignoranti” andava tutto bene: è possibile che quindi gli Americani siano diventati razzisti dopo che il primo presidente nero della storia degli U.S.A ha avuto due mandati? Non è l’ignoranza, come molti “maestrini” cercano di spiegare, ad avere vinto, bensì è la condizione sociale che ha determinato il voto di molti swing states. trumpUn esponente dell’Ansa, commentando la vittoria del Tycoon newyorkese, descriveva così il voto dei lavoratori del Nord-Est, da sempre democratici e ora repubblicani: “da una parte c’è un candidato che parla di lavoro, di dazi per le aziende straniere, di nuovi impieghi e nuove industrie. Dall’altra una candidata che parla di guerra e dei giardini delle scuole adibiti ai bambini transgender. Non vi pare naturale che per i lavoratori gli argomenti trattati dalla Clinton non sono minimamente interessanti?”. Ma questo alla “sinistra di Capalbio” non interessa, il problema del lavoro, della sanità e dell’arrivare a fine mese non gli compete. Il razzismo e il sessismo di Trump, per i quali è stato aspramente (e spesso giustamente) condannato dall’opinione pubblica, non sono minimamente una priorità per chi rischia di perdere il lavoro a causa della globalizzazione. La campagna della Clinton non si è basata sul proporre qualcosa di nuovo, bensì sull’andare contro il candidato repubblicano. La democratica ha quindi perso sia per la povertà delle proprie proposte, sia per merito di Trump, che si è proposto come un volto nuovo, vicino ai veri bisogni degli Americani. Un uomo che parla di lavoro e di riduzione delle tasse per le imprese, non di nozze gay e di diritti per gli immigrati, come punti salienti del proprio programma elettorale.

Gli americani avevano due possibilità: eleggere il primo presidente donna della propria storia o andare contro l’establishment di finanzieri e di lobbisti da cui la Clinton era fortemente rappresentata.

Non mi sembra che Trump abbia già “scatenato una guerra” o che Wall Street sia in picchiata, come molti “maestrini” prevedevano: Dow Jones per la prima volta nella storia è salito sopra i 19mila punti, tutti gli indici principali sono alle stelle e la fiducia nei mercati è altissima. Ma attenzione, che non si dica che questi ottimi risultati dell’economia americana derivino dall’elezione del magnate newyorkese: il Corriere ci assicura che questo trionfo di Wall Street sta avvenendo “nonostante Trump”. Solo nel caso di una crisi del mercato americano dopo le elezioni sarebbe stato possibile dare la “colpa” a The Donald, ovviamente, con la felicità di “maestrini e professoroni”. Il Tycoon li sta veramente facendo impazzire, attraverso la sua imprevedibilità che ha contraddistinto la sua campagna elettorale dal primo all’ultimo minuto. Tra le ultime mosse del neo-presidente c’è la nomina di Nikki Haley, membro del Partito Repubblicano ed attuale governatore del South Carolina, ad ambasciatrice americana all’Onu. È la prima donna americana di origini indiane a ricoprire un ruolo così importante: una bella sberla rivolta a quelli che l’hanno definito più volte “maschilista e razzista”?

Il mitico Clint Eastwood, in un’intervista del 4 agosto 2016, si dice “stanco di una politica buonista”, della “pussy generation” e dei “kiss-ass”, affermando che “segretamente tutti sono stanchi di questo “politically correct”; forse il regista americano aveva capito meglio di tutti i giornalisti e dei sondaggisti che le cose stavano cambiando, e che Trump rappresentava questa forte e necessaria inversione di rotta.trump1

Per il bene degli Americani e di tutti noi, spero che Trump mantenga le promesse fatte e sia un buon Presidente, in grado di migliorare la politica interna e soprattutto quella internazionale. E a tutti i maestrini che continuano ad attaccarlo aspramente e a giudicare negativamente gli Americani per il loro voto, che appoggiano i manifestanti pagati 15$ l’ora per creare disagi nelle città, cosa ci resta da dire? Beh, carissimi/e, attaccatevi al Trump!

Giovanni Friggi

#IowaCaucus

Se siete degli schifosi  individualisti – e, se leggete questo blog, lo siete –  non potete non essere ultra-eccitati per le elezioni del paese che più significa per gli schifosi individualisti.
Tuttavia, se siete veramente degli schifosi individualisti, stanotte avete dormito beatamente, sicuri del fatto che qualcuno avrebbe fatto after al posto vostro, pronto a parlarvi dei primi cento metri della lunghissima maratona nota anche come primarie per le presidenziali USA, quelle che ci porteranno alle elezioni di Novembre, quelle  che sceglieranno il 45° Presidente americano.
Ebbene, avevate ragione.
Se siete su questo blog sarete senz’altro in fissa con concetti quali “libero mercato”, “small govt”, “libertà di scelta” etc etc. Avete fatto bene a dormire sereni? Nì. Ora vediamo perché.
Visto che, se riconosco l’uomo nella foto in testa alla homepage, sarete tutti una manica di repubblicani  incalliti, sbarazziamoci subito dei Democratici, così poi passiamo alle cose serie.
trump2
I Dem che stanotte si son presentati ai caucus non son stati più di quelli che si son presentati nel 2008. Chiamati a scegliere tra Clinton e Sanders, impossibile non capirli.
Battute a parte, l’affluenza non eccezionale avrebbe dovuto avvantaggiare il candidato con la macchina più grossa, e invece…
Quelli che han sfidato la neve per chiudersi dentro una scuola, una palestra, una chiesa o un altro postaccio simile, si son spaccati a metà. Tolto lo zerovirgolaniente del troppo affascinante O’Malley – che si è ritirato dalla corsa -, la gara è stata un ansioso testa a testa tra Clinton e Sanders, rispettivamente fermi a 49,8 e 49,6% mentre scrivo.
Riconteggi e verifiche a parte per l’assegnazione dei (pochi) delegati in ballo, questo è un duro colpo per Hillary. Il pareggio infatti indebolisce chi appariva insormontabile e regala uno slancio enorme, sia per entusiasmo degli elettori, sia per attenzione mediatica, al senatore socialista ed alla sua campagna.
Ecco. Ho usato proprio quella parola. Proprio su questo blog.
Dovreste già aver compreso perché stanotte non era la notte adatta per dormir tranquilli.
Gli staff dei due candidati hanno già iniziato il lavoro di spinning: quello di Hillary si chiede se il risultato di Bernie possa essere considerato una vittoria nonostante un elettorato così congeniale (bianco e sensibile alle posizioni estremiste). La risposta dello staff di Sanders – scontata – butta tutto sempre su Davide e Golia.
Non tutto è perduto però. Nel 2008 l’ex first lady si trovò ad affrontare una situazione simile: Iowa in obamania. Non si perse d’animo e sbancò in NewHampshire. Ok, alla fine la nomination la vinse Obama, ma cerchiamo di non focalizzarci sulle cose macro (= incrociate le dita che non vinca il fuori di testa del Vermont).
E i Repubblicani invece? Che hanno combinato?
Hanno ferito The Donald e l’hanno ferito così brutalmente (i caucus si son svolti con un’affluenza record) che forse, stamattina, ci sta perfino un poco simpatico.
Tranquilli comunque, niente di serio. Noi reaganiani tifiamo per gli attori bellissimi dal sorriso smagliante, non per i fuori di testa.
Sul gradino più alto del podio, col 27 e rotti per cento dei voti, ci è salito Ted Cruz, senatore texano molto di destra, in difetto di phisique du role per la presidenza, odiato da tutta Washington, ma estremamente abile nel conquistare il miglior risultato mai raggiunto da un repubblicano durante i caucus in Iowa.
Un candidato-predicatore che ha occupato la lane dei conservatori evangelisti (vedi posizioni anti-aborto e anti-matrimoni-gay), ha saputo dialogare con i teapartisti e i repubblicani liberisti (vedi crociata contro i sussidi statali all’industria dell’etanolo) e, in generale, ha saputo dire cose molto molto molto di destra in maniera tutto sommato istituzionale.
Bonus: nel discorso della vittoria, attaccando il socialista di cui sopra, ha detto “Eventually you run out of other people’s money.” Che ve lo dico a fare?
Del secondo posto abbiamo già detto. Un deludente 24% per un Trump accreditato come tsunami inarrestabile. Appena la temperatura sarà scesa un po’, appena l’analisi sarà un po’ più affidabile, scopriremo cosa ha realmente danneggiato Trump. Forse i sondaggi basati su americani non davvero interessati alla politica, forse l’assenza dal dibattito dell’altra notte. Chi lo sa.
Il capolavoro comunque sta nel gradino più basso.
Marco Rubio, il candidato repubblicano più “presidenziabile” di tutti ha quasi raggiunto Trump, tallonandolo con un 23% che a momenti pareva potersi trasformare perfino in un secondo posto.
Marco è giovane, reaganiano, ottimista, convinto dell’eccezionalismo americano, arriva da uno degli swing states, la Florida, è amato dal partito, dagli elettori e pure da qualche democratico del Congresso. Nipote di immigrati cubani,  può sfondare nell’elettorato ispanico, unico modo per conquistare la presidenza. E l’ho già detto che arriva da uno degli swing states, la Florida?
La sua strategia, neppure troppo segreta, era ed è quella di arrivare 3° in Iowa, 2° in NewHampshire e 1° in South Carolina e/o Nevada.
Che dire: per ora sta lavorando davvero bene.
Il quarto posto è del neurochirurgo nero più famoso d’America: Ben Carson. L’altra notte, durante il dibattito organizzato da Fox e Google a Des Moines ha recitato il Prologue della Costituzione durante il final statement. Bellissimo.
Quindi ok, Ben è in gamba, un brav’uomo, educato e gentile. Qualche volta è fuori dalle righe, ma non è questo il problema: i dati economico-finanziari della sua campagna ci dicono che la sua corsa non è quella della presidenza, quindi speriamo che faccia un buon uso degli 8 delegati vinti stanotte e grazie e arrivederci.
Il quinto posto è una di quelle cose che ti scalda il cuore e che crea una piccola storia nella storia. Subito dietro il 9% di Ben Carson troviamo Rand Paul con un sorprendente 5%.
Sappiamo tutti che la lane dei libertarians non è sufficientemente larga per portare il son of Liberty alla nomination, però che dire: ha conquistato un delegato e noi libertarians e conservatarians non possiamo che essere felicissimi.
Rand è il vero came-back kid.
Da qui in poi invece è una valle di lacrime.
Jeb Bush, il povero Jeb Bush, che pure aveva dato ottima prova di se durante il dibattito dell’altra sera, s’è fermato al 2,8%. Forse ha sbagliato ciclo politico, forse ha sbagliato l’impostazione dell’intera campagna sin dall’inizio. Difficilmente si riprenderà.
Giusto per infierire: facendo due calcoli sulle spese di “Right to Rise”, il super PAC vicino a Bush, ogni voto ottenuto stanotte è costato una roba come 25 mila dollari.
There ain’t no such thing as a free vote, praticamente.
Carly Fiorina, ex CEO della HP, ha fatto peggio ancora: 1,9%.
Idem John Kasich, ex governatore dell’Ohio. Repubblicano ultra-moderato.
Mike Huckabee, lo zio strano del gruppo, ha preso l’1,8% delle preferenze ed ha interrotto la corsa.
Anche Chris Christie, il RINO per eccellenza, governatore del New Jersey, 1,8%.
Rick Santorum 1%.
Jim Gilmore, non pervenuto.
Ora tirate un sospiro di sollievo e ricordate che la corsa dura diversi mesi e che nel 2008, in Iowa vinse Huckabee; nel 2012, Rick Santorum.
Detto questo, la corsa è ufficialmente cominciata.
Alessandro Cocco

Delocalize Polonia

E la Polonia?” “Boh, tanta birra ,fa freddo, belle donne, uno di quei paesi dell’est dove farsi un giro e non tornare.”

Davvero?

La Polonia , si certo, è birra (Piwo), freddo, belle donne, ma vediamo cos’è di più.

E’ innanzitutto un paese che è stato martoriato dalle vicende storiche, per cent’anni il popolo polacco è stato sottoposto ad un tentativo di cancellazione delle sue radici culturali . Nonostante ciò i polacchi hanno oggi una fortissima identità, si riconoscono nel proprio paese, a mio giudizio sicuramente più di certi popoli mediterranei.

birra

Per strada ci imbattiamo nella persona media: sorride, è disponibile e quando vede che sei straniero cerca subito di farti capire che ti aiuterebbe, spiccica qualche parola in inglese, ma passa presto ai gesti per farsi capire. (L’inglese è conosciuto solo tra le generazioni più giovani, sempre con moderazione).

Gli studenti a Cracovia , si trovano fanno festa a base di Piwo e shot di “Wodka” (rigorosamente polacca, fruttata all’olfatto e dal sapore intenso, da non confondere con la Vodka, russa, la sola che arriva in Italia).

Le persone sono semplici, vedono un futuro di crescita, libertà economica e prosperità. I giovani sono dinamici e scambiano idee e in molti fondano aziende di trasporto merci o servizi di IT. Gli studenti sono motivati, sanno che una volta laureati, qualcosa da fare ci sarà di sicuro per loro.

…I magici anni del boom economico italiano insomma.

Ma cosa centra tutto questo con la delocalizzazione del nostro titolo?

Quella descritta è l’atmosfera che si respira. E gli stranieri che fanno?

Lo stato polacco è ben disposto ad accogliere gli stranieri, purché portino soldi, e gli italiani si spostano. Vittorio Merloni, presidente di Indesit, c’è andato nel 2007. “La scelta è dovuta esclusivamente a criteri di competitività sui mercati internazionali”, è il commento di Indesit per la stampa, quando viene annunciata la chiusura dello stabilimento storico di None, nel 2009, a favore dell’investimento in Polonia.

Cosa spinge le aziende italiane (e gli italiani stessi) a “delocalizzar(si)” in Polonia?

Wodka e Piwo sono un bell’incentivo, ma non sono da soli.

  • Stabilità politica, gli ultimi 8 anni di governo sono stati determinati da solide (ed efficaci) politiche per la crescita. Che ritornino sui propri passi, sembra improbabile.
  • Basso costo energia, la maggiore fonte è il carbone.
  • Alto livello formazione, i trentenni polacchi laureati erano quanti gli italiani nel 2000, dati del 2011 mostrano un netto sorpasso nei nostri confronti.formazione.jpg
  • Poche regole per l’impiego, e costo del lavoro del 30-35% in meno rispetto alle economie evolute dell’Europa occidentale. Tasso di occupazione elevato.
  • Pressione fiscale ridotta, moltissimi i vantaggi fiscali, primo tra tutto la deducibilità pressoché totale delle spese, per non parlare degli aiuti fiscali ed esenzioni d’imposta garantite nelle “zone economiche speciali”.

Interessante è il discorso sulle Zone a statuto speciale (SEZ), “ambienti protetti” dove installare centri di produzione e di ricerca con forti agevolazioni.

Il risultato? Gli FDI (investimenti diretti di capitale straniero) in dieci anni sono aumentati del +183%. L’economia ha imboccato una spirale positiva, che pare sostenibile a tutti, per primi a tutti quegli investitori inglesi, tedeschi e, soprattutto, italiani che spostano lì le loro fabbriche.

“Io un giro in Polonia me lo vado a fare, e magari ci ritorno”

E la cara Italia? Aspettiamo la ripresa.

Sperando.

 

Fabio Aprà

Saluti a pugno…sui denti

Non so come eravamo rimasti, ma mi pare di ricordare che, l’ultima volta che ho controllato, i simboli avessero ancora un significato.

Cioè, se io andassi in giro facendo il saluto romano, per esempio, suppongo qualcuno mi direbbe qualcosa.

Specialmente se io fossi il commissario unico di EXPO e neo proclamato alumnus bocconi dell’anno Giuseppe Sala.

Se io fossi Giuseppe Sala e andassi in giro a fare il saluto romano, sono sicuro che qualcuno si incazzerebbe.

Dopotutto, come potrei biasimarli.

jhb

Sfoggiare sorridendo un simbolo di morte e oppressione, di un’ideologia che ha schiacciato la libertà individuale di milioni di persone per decenni e decenni non è un comportamento per il quale puoi sperare di passarla liscia, giusto?

Suppongo che almeno qualche spiegazione dovrei darla, tipo: ci credo davvero, era per ridere, dovevo farlo perché se no il Capo di Stato che l’ha fatto per primo si offendeva, e così via.

Eppure, ho la sensazione che comunque non la farei franca, a fare un saluto romano così, sorridendo tronfio.

Ovviamente ognuno deve essere libero di fare i saluti che vuole: pugni, marameo e tutto il resto, intendiamoci eh.

Però, se io rappresentassi qualcosa, se fossi l’amato prodotto di un sistema con certi valori, forse avrei degli obblighi nei confronti di quel sistema. Ancora di più, forse dovrei difendere quei valori e se incontrassi il leader di un movimento politico che mi saluta con il suo gesto consueto, che entrambi sappiamo significare un insieme di cose ben precise, beh forse dovrei avere il coraggio di difendere quello in cui credo, accettare che lui può fare ciò che vuole, ma non seguirlo. Perché nel mio mondo, quello è un gesto inaccettabile.

Il pugno che vedete sopra in foto è il simbolo di una brutalità storica che abbiamo il dovere di ripudiare, noi che diciamo di amare la libertà e la democrazia. Non può essere sfoggiato col sorriso e senza conseguenze, perché è una schifezza.

Ciò che però senz’altro deve farci riflettere è la reazione della nostra università di fronte al gesto di Sala. Una reazione di calma indifferenza, per un gesto che all’occhio dell’osservatore più clemente sarebbe considerato almeno una pagliacciata.

A che pro cospargersi il capo di cenere per interventi di personaggi controversi, ma non vergognosi, come ce ne sono stati in università in passato, proteggere il proprio nome a ogni costo e conservarlo come una reliquia, se poi in seguito a questi episodi non si solleva neanche un indizio di vergogna?

O per loro quel gesto non ha il significato che dovrebbe avere, oppure io mi sto perdendo qualche grosso dettaglio.

Ad ogni modo, noi, che siamo i figli di un mondo che ha respinto quel simbolo, prosperando, e siamo grati di averlo ripudiato, non possiamo restare indifferenti e soprattutto non possiamo accettarlo col sorriso.

Non c’è davvero niente da ridere.

Alessandro D’Amico

Fermo o forse sparo

In Italia esiste una reale libertà di agire dell’individuo entro i confini della propria proprietà? E con libertà di agire mi riferisco anche alla possibilità di autodifesa. Questa sovrastruttura tentacolare, lo Stato, con il suo eccesso di legittima difesa, invece, non me lo permette. Dovrebbe. Dovrebbe lasciarmi libero di scegliere, libero di agire come meglio credo, tanto più quando sono entro i miei confini.

Diversi sono stati gli episodi, negli ultimi giorni, che hanno scatenato un acceso dibattito da parte di esponenti diversi della politica nostrana. L’europarlamentare e sindaco di Borgosesia, Buonanno, ha persino detto di voler introdurre il “bonus pistola”. Un pensionato, Francesco Sicignano, spara a Gjergi Gjoni, immigrato albanese senza permesso di soggiorno ed è subito polemica, con tanto di perizia psichiatrica per l’anziano. Il pensionato gli spara perché il clandestino gli è entrato in casa. (That’s it). D’altronde, se qualcuno ti entra in casa non certo per prendere latte e biscotti, se poi è un immigrato clandestino con tanto di precedenti, di certo non gli stendi il tappeto rosso quando sorpassa la soglia.

Cattura

Altra vicenda è quella di Ermes Mattielli da poco condannato per aver sparato ripetutamente a due ragazzi, due nomadi, con l’accusa  di essersi accanito. Li aveva scovati a rubare del rame dalla sua tenuta. Ora,  mentre lui passera i prossimi 5 anni in carcere, i due stranieri riceveranno un indennizzo di quasi 150.000 euro.  Joe Formaggio, qualche giorno fa, ospite da Cruciani, su radio 24, ha affermato:  “se qualcuno prova ad entrarmi in casa, gli sparo in faccia e quello si trova le cervella nelle scarpe da ginnastica”. Una frase che, certo, non ha bisogno di ulteriori chiarimenti. Chi può dargli torto. E’ possibile che non si possa avere il diritto di difendere ciò che costituzionalmente inteso come la naturale estensione della propria persona, come meglio si crede?  Senza contare che spesso da un semplice furto in appartamento si arriva, poi, ad atti di violenza nei confronti di chi nell’appartamento ci abita. E’ un mio diritto, allora, difendere nella maniera più opportuna l’integrità dei miei cari e dei miei beni quando  questi sono messi in pericolo.

In paesi civili, come gli US, tutto ciò è supportato dalla tesi che la vita, la  proprietà stessa ed il suo naturale e sereno godimento siano diritti fondamentali ed inalienabili per l’individuo e perciò difendibili con ogni mezzo se seriamente minacciati. In una società libera tutto si basa sul concetto di proprietà privata, intesa come sfera intangibile, che nessuno può intaccare coercitivamente. Se poi Lo Stato non riesce a garantirne la dovuta protezione, interna od esterna, un via libera alla detenzione di armi è dovuto. Altro che sconfitta della civiltà.

Con la legge 13 Febbraio 2006 n.59 il legislatore ha inserito due nuovi commi all’art 52 del c.p. sulla legittima difesa. L’intento è di accordare ad i cittadini onesti uno strumento contro i malfattori. Nel nostro paese, invece, dove il paternalismo ed il politicamente corretto regnano sovrani, una conquista della civiltà è stata bollata con la formula mediatica “licenza di uccidere” e non sono mancate le polemiche sulla costituzionalità della stessa legge citata. “Dalla nostra costituzione (la più bella del mondo) -a detta degli addetti ai lavori- “si ricava il superiore valore del bene vita, rispetto al bene patrimonio”
Ora, Joe Formaggio a parte, siete sicuri che esistano sostanziali differenze fra il bene vita ed il bene patrimonio? Io, sinceramente, non credo.

                      Filippo Camerada feat. Azzeccagarbugli

Rai Way e la libertà di mercato

Poco più di dieci giorni fa, Ei Towers, società controllata da Mediaset per il 40%, ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto e scambio su Rai Way, proprietaria di impianti e infrastrutture per la trasmissione e diffusione del segnale radiotelevisivo della Rai. Entrambe operano nello stesso settore e ciò ha naturalmente generato speculazioni circa il possibile monopolio che verrebbe a crearsi nel mercato delle telecomunicazioni; specie se l’acquirente in questione è l’ex premier e attuale leader all’opposizione.

Com’è che ci si è riscoperti paladini della concorrenza nel paese in cui “il libero mercato, che Dio ce ne scampi”?

Se l’operazione fosse avvenuta in senso opposto, ovvero se fosse stata Rai Way a presentare un’offerta per l’acquisizione di una quota di Ei Towers, dubito che il Fatto Talebano e i vari intellettuali de sinistra si sarebbero schierati così strenuamente in difesa della libertà di informazione e del libero mercato. Insomma, ci si preoccupa se la rete di diffusione è integralmente nelle mani di un privato, ma non ci si pone lo stesso problema nel caso speculare. Certo, perché se l’intera infrastruttura fosse nel mani della Rai, l’indipendenza del giornalismo e il pluralismo nell’ informazione sarebbero garantiti, ed è così in malafede chi dovesse pensare il contrario…! Due pesi e due misure, ma in ogni caso sempre dalla parte dello Stato e contro il privato e la libera iniziativa.

D’altra parte ci si dovrebbe domandare se il risultato dell’opas da parte di Ei Towers possa davvero configurarsi come un vero e proprio monopolio e se sia giusto impedire l’operazione in nome della concorrenza e della democrazia.

A tal proposito, chiamiamo in aiuto la teoria austriaca. Quest’ultima dissente da quella neoclassica almeno nella misura in cui si sostiene che sia la struttura del mercato (un luogo dove agiscono un vasto numero di imprese omogenee) a determinare il grado di competizione. No, secondo la scuola austriaca ciò che conta è il comportamento di rivalità. Competere significa sforzarsi di offrire un prodotto migliore rispetto a quello di un’impresa rivale. Poco conta se queste siano due o cento, l’importante è che continuino a contrapporsi l’una all’altra. Certo, l’obiezione potrebbe essere che quando si è in pochi è più facile mettersi d’accordo per spartirsi il mercato. Ma finché è consentito il libero accesso a un determinato settore, ci sarà sempre qualcuno pronto a entrare nel mercato e guastare gli accordi presi, offrendo quanto meno lo stesso prodotto a migliori condizioni, ai fini di acquisire l’intera quota di profitti. La differenza tra le due teorie appare pigmea. In realtà è abissale, se si pensa alle ricadute sulle politiche antitrust. Se seguiamo il ragionamento neoclassico, l’autorità preposta si dovrebbe impegnare per impedire la concentrazione del mercato nelle mani di pochi operatori, mentre nell’altro caso l’attività di un’eventuale authority dovrebbe essere finalizzata alla rimozione di ostacoli che impediscano l’ingresso di nuove imprese.

Nella fattispecie, non si ravvisa nulla di tutto ciò: non c’è una legge statale che impedisca l’ingresso di nuovi players nel mercato delle infrastrutture radiotelevisive. Certo, si potrebbe affermare che il doppio ruolo di venditore e competitore nel mercato televisivo consenta al soggetto integrato di favorire nel mercato a valle le proprie società televisive a danno dei concorrenti. Ma non si vede come ciò sia possibile, dal momento che al’interno dello stesso settore delle infrastrutture ci sono altri competitors e nuovi potenziali entranti cui rivolgersi. Sarebbe quindi illogico per Ei Towers rinunciare a milioni di proventi che otterrebbe dalla Rai e di cui beneficerebbe anche Mediaset, visto che controlla il 40% della società acquirente. Per non parlare del fatto che Rai Way non potrà mai essere del tutto controllata da Ei Towers, dato che il 51% rimarrà comunque nelle mani dello Stato.

C’è quindi chi ha paventato un pericolo per l’informazione libera, nonché una minaccia per il pluralismo e la democrazia. Come se in Italia ci fossero solo Rai e Mediaset e non anche La7 o Sky e centinaia di altre televisioni locali.  O come se in Italia l’unico mezzo di informazione fosse la televisione e non ci fossero la carta stampata, la radio o Internet. Basta ricordare che nel 2013 Grillo ha ottenuto il 25% dei consensi senza mai comparire in un dibattito televisivo e ogni volta che si parlava di lui in televisione o sui quotidiani era in riferimento a dichiarazioni diffuse tramite il suo blog.

Infine sarebbe interessante porre in discussione il rapporto di causalità che si pensa esserci attualmente tra media e consenso popolare. Spesso si è pensato che Berlusconi abbia goduto di elevato consenso soprattutto grazie alle sue televisioni. Ma si è sicuri che tale rapporto di causalità sia corretto? Ove il potere politico controlli tutti i mezzi di comunicazione, questo tipo di legame è senz’altro vero. Ma in una realtà come quella democratica, dominata da una pluralità di mezzi di comunicazione, ciascuno dei quali ha all’interno diversi canali, non è possibile che il rapporto sia invertito? Non è possibile che si guardi un certo canale in virtù delle proprie opinioni politiche? D’altronde come consumatori si dispone di una libertà di scelta maggiore rispetto a un cittadino di uno Stato totalitario e si può scegliere liberamente da chi informarsi. In soldoni, ora come ora è più probabile che qualcuno guardi il TG4 perché berlusconiano, piuttosto che il contrario. Tutto ciò grazie alla libertà di scelta, grazie a privati che investono in televisioni, radio e giornali, con l’obiettivo di intercettare un certo target e conseguire profitti, così come avviene in tanti altri mercati.

E poi, diciamocelo, li avete visti i palinsesti?

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Francesco Billari

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