È successo veramente: il 9 novembre Donald Trump è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, conquistando la Casa Bianca assicurandosi 306 grandi elettori e succedendo a Barack Obama. Contro ogni previsione, il Tycoon di New York è riuscito nell’impresa; basti pensare che il New York Times dava alla rivale Clinton l’84% delle possibilità di trionfare, l’Huffington Post addirittura il 98%.
Abbiamo assistito successivamente ad una giornata di lutto “internazionale”: i discorsi di congratulazioni della maggior parte dei premier mondiali sono stati molto freddi, la borsa sarebbe dovuta crollare da un momento all’altro, la gente ha iniziato a paventare scenari da terza guerra mondiale e a definire gli Americani un popolo di ignoranti e di razzisti. Eppure quando Obama ha trionfato nel 2008 e nel 2012 prendendo i voti dei cosiddetti “ignoranti” andava tutto bene: è possibile che quindi gli Americani siano diventati razzisti dopo che il primo presidente nero della storia degli U.S.A ha avuto due mandati? Non è l’ignoranza, come molti “maestrini” cercano di spiegare, ad avere vinto, bensì è la condizione sociale che ha determinato il voto di molti swing states. Un esponente dell’Ansa, commentando la vittoria del Tycoon newyorkese, descriveva così il voto dei lavoratori del Nord-Est, da sempre democratici e ora repubblicani: “da una parte c’è un candidato che parla di lavoro, di dazi per le aziende straniere, di nuovi impieghi e nuove industrie. Dall’altra una candidata che parla di guerra e dei giardini delle scuole adibiti ai bambini transgender. Non vi pare naturale che per i lavoratori gli argomenti trattati dalla Clinton non sono minimamente interessanti?”. Ma questo alla “sinistra di Capalbio” non interessa, il problema del lavoro, della sanità e dell’arrivare a fine mese non gli compete. Il razzismo e il sessismo di Trump, per i quali è stato aspramente (e spesso giustamente) condannato dall’opinione pubblica, non sono minimamente una priorità per chi rischia di perdere il lavoro a causa della globalizzazione. La campagna della Clinton non si è basata sul proporre qualcosa di nuovo, bensì sull’andare contro il candidato repubblicano. La democratica ha quindi perso sia per la povertà delle proprie proposte, sia per merito di Trump, che si è proposto come un volto nuovo, vicino ai veri bisogni degli Americani. Un uomo che parla di lavoro e di riduzione delle tasse per le imprese, non di nozze gay e di diritti per gli immigrati, come punti salienti del proprio programma elettorale.
Gli americani avevano due possibilità: eleggere il primo presidente donna della propria storia o andare contro l’establishment di finanzieri e di lobbisti da cui la Clinton era fortemente rappresentata.
Non mi sembra che Trump abbia già “scatenato una guerra” o che Wall Street sia in picchiata, come molti “maestrini” prevedevano: Dow Jones per la prima volta nella storia è salito sopra i 19mila punti, tutti gli indici principali sono alle stelle e la fiducia nei mercati è altissima. Ma attenzione, che non si dica che questi ottimi risultati dell’economia americana derivino dall’elezione del magnate newyorkese: il Corriere ci assicura che questo trionfo di Wall Street sta avvenendo “nonostante Trump”. Solo nel caso di una crisi del mercato americano dopo le elezioni sarebbe stato possibile dare la “colpa” a The Donald, ovviamente, con la felicità di “maestrini e professoroni”. Il Tycoon li sta veramente facendo impazzire, attraverso la sua imprevedibilità che ha contraddistinto la sua campagna elettorale dal primo all’ultimo minuto. Tra le ultime mosse del neo-presidente c’è la nomina di Nikki Haley, membro del Partito Repubblicano ed attuale governatore del South Carolina, ad ambasciatrice americana all’Onu. È la prima donna americana di origini indiane a ricoprire un ruolo così importante: una bella sberla rivolta a quelli che l’hanno definito più volte “maschilista e razzista”?
Il mitico Clint Eastwood, in un’intervista del 4 agosto 2016, si dice “stanco di una politica buonista”, della “pussy generation” e dei “kiss-ass”, affermando che “segretamente tutti sono stanchi di questo “politically correct”; forse il regista americano aveva capito meglio di tutti i giornalisti e dei sondaggisti che le cose stavano cambiando, e che Trump rappresentava questa forte e necessaria inversione di rotta.
Per il bene degli Americani e di tutti noi, spero che Trump mantenga le promesse fatte e sia un buon Presidente, in grado di migliorare la politica interna e soprattutto quella internazionale. E a tutti i maestrini che continuano ad attaccarlo aspramente e a giudicare negativamente gli Americani per il loro voto, che appoggiano i manifestanti pagati 15$ l’ora per creare disagi nelle città, cosa ci resta da dire? Beh, carissimi/e, attaccatevi al Trump!
Giovanni Friggi