E’ colpa di…

E’ colpa

  • dei  vecchi
  • degli ubriaconi dei pub
  • dei campagnoli
  • dei cafoni
  • dei razzisti
  • dei pazzi
  • di Salvini
  • di Trump
  • di Carlo Conti
  • degli ignoranti
  • della disuguaglianza
  • del TTIP
  • dei bevitori incalliti di thè

e chi più ne ha più ne metta.

E’ certamente possibile fare finta che questo non sia un risultato in continuità con il no di Francia e Olanda alla Costituzione Europea. Ma è impossibile non riconoscere come da qualche anno il progetto europeo venga costantemente bocciato dai cittadini europei chiamati ad esprimersi. Forse è il caso di chiedersi se, dove e perchè stanno sbagliando le elitè europee, dato che aspiriamo ad esserne parte, almeno a parole. Se davvero pensate che non stiano sbagliando nulla, potete sempre divertirvi ad allungare la lista di colpe di cui sopra: magari prima o poi ci azzeccherete.

 

Nicolò Bragazza

C’Avete Trivellato i Coglioni

Mamma mia che volgarità! Ecco, proprio come una trivella vorrei girare un po’ attorno al punto prima di centrarlo, partendo con una supercazzola sul metodo: i problemi politici possono coinvolgere la sfera ideale a vari livelli, e possono pertanto essere anche concretissimi; quando ciò è vero, tanto più ideologico è l’approccio, tanto più retorica sarà la risposta.

Nel caso di questa consultazione referendaria la domanda è assai precisa, ovvero “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati gli impianti in attività nelle acque territoriali italiane, anche se i giacimenti non fossero ancora esauriti?”. Personalmente leggerei così la domanda “Ritieni che l’impatto ambientale dell’estrazione sia più grave del fermo di impianti già realizzati e funzionanti?” e, in ogni caso, la domanda non è certo “Il petrolio è giusto o sbagliato?”, sfruttare la scheda del 17 aprile per rispondere ad una domanda più ampia, sentita forse dall’amico immaginario, è banalmente fuori luogo.

Il fatto che il problema sia concretissimo non preclude diverse chiavi di lettura, ed anzi impone la conciliazione tra aspetti economici ed ambientali (e se pensate che siano due cose completamente diverse documentatevi sul concetto di esternalità e scoprirete che l’economia non è la scienza del male). La mia farneticante sensazione è, l’avrete capito, che questo referendum catalizzi il dibattito sulle fonti energetiche e che chi voti lo faccia prescindendo dal problema in questione, ma, concedetemi il francesismo, è inutile interessarsi di politica se della realtà non ve ne fotte un cazzo.

E ora veniamo ai fatti

Il referendum sulle trivelle riguarda il solo rinnovo delle concessioni agli impianti situati entro le 12 miglia dalla costa italiana. Si tratta di 92 impianti corrispondenti a 21 concessioni, la cui attività estrattiva copre circa l’1% del consumo nazionale di petrolio e il 3-4% di quello di metano. Per quanto riguarda l’attivazione di nuove piattaforme in tale zona vige il divieto dal 2006. 

L’esito positivo del referendum impedirebbe al legislatore il rinnovo delle concessioni, l’esito negativo del referendum lascerebbe inalterata la situazione – le concessioni potrebbero essere rinnovate oppure no.

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Nel 2014 la produzione di elettricità da combustibili fossili ha rappresentato il 63,5% del fabbisogno nazionale lordo, mentre il restante 36.5% è stato coperto da fonti rinnovabili. Nello stesso anno l’Italia ha importato il 71.5% dei consumi di gas naturale e il 92.9% di quelli di petrolio; principalmente da paesi ex-URSS (45% del gas e 42% del greggio), dall’Africa (35% del gas e 24% del greggio), e dal Medio Oriente (23.5% del greggio).

A gestire le piattaforme che rischiano di chiudere per via del referendum è soprattutto la nostra Eni. La cane a sei zampe della Repubblica italiana è azionista di maggioranza in 76 dei 92 impianti, Edison ne possiede 15 e Rockhopper 1.

Gli investimenti nella zona sono in calo: dopo Petroceltic e Shell Italia anche Transunion Petroleum ha rinunciato alle ricerche di gas e petrolio nel Golfo di Taranto e nel Canale di Sicilia. Una decisione derivata dal rigetto parziale delle istanze da parte del ministero dello Sviluppo economico, in attuazione della legge di Stabilità.

Le quota delle royalties versate da società petrolifere riconducibile agli impianti entro i 12 km dalle coste è di 38 milioni di euro.

Le spese certe  di ogni consultazione referendaria, escludendo i costi indiretti sostenuti dai cittadini, variano tra i 170 e i 200 milioni di euro. Per il referendum in questione la stima dei costi è 370 milioni di euro.

L’unico incidente relativo a questi impianti nella storia italiana è avvenuto al largo di Ravenna nel 1965: le conseguenze sono state 3 morti, ma nessun danno ambientale rilevante.

Degno di nota è infine lo scambio di battute tra gli allegri burloni di Greenpeace  e i plausibilmente più anziani ma comunque animosi Ottimisti e Razionali .

Inoltre un po’ argomenti semiseri e sfusi

“Attorno alle piattaforme non si riesce a pescare, quindi sono una sorta di riserva per la fauna marittima locale”

“Se il referendum per le trivellazioni prevede anche l’eliminazione di quelle terribili piattaforme che piazzano al largo gli stabilimenti balneari allora è doveroso andare a votare sì”

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“Gli incidenti dipendenti dalle piattaforme di trivellazione dipendono da moti della crosta terrestre ed errori umani, entrambi fattori piuttosto imprevedibili”

“Gli impianti sono lì da anni gli effetti negativi sul turismo, se ne hanno, li hanno già sortiti”

Un eventuale sì allontanerà ancora più gli investimenti stranieri dal nostro Paese, a prescindere dal settore

“Fermare le trivellazioni potrebbe dare un segnale forte, utile alla causa delle rinnovabili

“Se anche passasse il sì le trivellazioni nell’Adriatico proseguirebbero in Croazia, Montenegro e Grecia

Ma tra tutti gli argomenti possibili, in tutto l’universo del dialogo democratico, uno solo si merita indubbiamente il titolo dell’articolo, uno solo ci ha davvero, incredibilmente, trivellato i coglioni, e voi lo conoscete bene:

Sì Zio, ma se sei per il no devi andare a votare, non puoi startene a casa!

Ma cosa potrà mai pensare chi mette in fila dei significanti del genere? Passi magari il sentimento di umanissima rivalsa nei confronti di chi può esprimersi pur rimanendo all’Xbox, passi, un po’ meno, l’arguzia politica dello spaccare il fronte avversario in due, ma quello che più temo e ancora più spesso sento è qualcosa del tipo “Votare è giusto!” e qui davvero siamo nella sfera contenutistica del flagellante medievale.

Votare è lo strumento con cui il cittadino esercita un effetto sostanziale sul governo della cosa pubblica. Quando l’effetto desiderato è ottenibile anche tramite l’astensione ciò che resta è il mito del voto – alternativa dominata – in quanto tale, e ciò, cari amici tendenzialmente socialisti e anticlericali, è largo circa religione, e se volete pregare trovo che un crocefisso sia meglio delle urne.

La mia lettura vi è chiara fin dalla testata, non trovo una ragion d’essere a questo referendum perché si applica ad una casistica ristrettissima, riguarda un problema quasi del tutto tecnico, e difficilmente la forbice tra le due possibili alternative, a prescindere da quale riteniate più corretta, potrà superare il costo della consultazione.

Se siete arrivati addirittura qui in fondo permettetemi un ultimo spassionato consiglio: piuttosto che leggere altri articoli sulle trivelle preparatevi al 17 con degli occhiali ignoranti, pronti per il sole d’Aprile.

Nicola Rossi

Salario Minimo Al’Italiana

In questo periodo si sente parlare spesso in Italia, Europa o Stati Uniti, di giustizia sociale e condizioni di lavoro che consentano una vita “dignitosa” (qualunque cosa questo significhi).

Spesso, quindi, si discute dell’introduzione del “minimum wage”, il salario minimo, per consentire ai lavoratori a basso potere contrattuale uno stipendio “dignitoso”.

Dunque, varrebbe la pena introdurlo anche da noi in Italia? Gli Stati Uniti hanno introdotto una simile pratica molto tempo fa. Anche la Germania ha fatto altrettanto in tempi molto più recenti.

Tuttavia, per quanto felici (o no) possano essere gli esempi di chi prima ha adottato questa legge, ricordiamoci che il lavoro è una merce, come molte altre, e ha un prezzo stabilito tra chi vende e chi compra. Introdurre leggi che regolino questo prezzo è simile a introdurre leggi che regolino il prezzo della benzina, o di certi cibi, o delle case. La presunzione che i governi hanno di saper meglio del mercato quali prezzi assegnare a diversi beni ha storicamente portato a condizioni di scarsa felicità, per usare un eufemismo.

Comunque, prima di giungere a conclusioni affrettate riguardo i provvedimenti di cui avrebbe bisogno il nostro paese sarebbe meglio concentrarci su cosa sarebbe effettivamente possibile fare, evitando soprattutto di paragonare l’Italia ad altre nazioni, le cui necessità sono ben diverse.

Introdurre un salario minimo legale comporterebbe assumersi numerosi rischi e soprattutto far fronte a quello che in termini economici definiamo un trade-off: libertà contrattuale o pane per tutti? Questione di priorità.

Sappiamo da dati storici e da semplici modelli microeconomici di domanda e offerta che l’aumento del salario minimo, equivalente a un aumento del prezzo del bene Lavoro, provocherebbe un calo della domanda e quindi, necessariamente, un aumento della disoccupazione.

Ecco allora che lo Stato dovrebbe interferire ulteriormente attraverso l’utilizzo di ammortizzatori interni, per sopperire all’aumento della disoccupazione che il salario minimo causerebbe. Tuttavia, una indennità di disoccupazione eccessivamente elevata potrebbe scoraggiare i lavoratori.

Cominciamo quindi a chiederci se il gioco vale la candela, senza dimenticare che in momenti di crisi il costo del lavoro di solito si abbassa per consentire la ripresa. La nostra economia soffre di una crisi produttiva e gravarla di una “tassa” indiretta, cioè un costo, come il salario minimo potrebbe non essere la mossa giusta per aiutarla a ripartire. Ad ogni modo, in Italia le aziende che non applicano i contratti nazionali sono tenute a rispettare i minimi salariali da essi stabiliti, motivo per cui la sua introduzione rappresenterebbe un radicale cambiamento all’interno delle relazioni industriali.

L’introduzione del salario minimo potrebbe paradossalmente aumentare la concorrenza nel mercato del lavoro a sfavore dei più bisognosi e dei meno preparati, perché costringerebbe gli imprenditori a cercare disperatamente qualcuno che “valga” i soldi che lo Stato costringe a pagare. L’esperienza (discutibilmente positiva) della Germania ci insegna poi che uno degli effetti negativi più rilevanti potrebbe registrarsi sull’apprendistato e sulla formazione dei giovani.

Applicare il salario minimo dai 18 anni vorrebbe dire incentivare gli studenti ad abbandonare o rinunciare alla formazione in apprendistato e scegliere lavori non qualificati, ma che garantiscono il salario minimo, rischiando di danneggiare il loro posto futuro all’interno dell’occupazione o addirittura, in maniera quanto mai controproducente, spingerli nelle braccia del lavoro nero, in un Paese dove quest’ultimo fa da padrone in molti settori.

Tra l’altro sappiamo che, in Germania, la contrattazione collettiva ha subito numerosi aggiustamenti che l’hanno portata a virare sempre più verso una contrattazione aziendale tout court e il lavoro nero non ha ancora attecchito come in Italia. Per questo motivo, il salario minimo legale protegge i lavoratori a basso potere contrattuale, senza impattare su altri aspetti della contrattazione.

Ma nel nostro paese le cose probabilmente andrebbero in maniera diversa: il sistema politico italiano, a cui spetta prendere le decisioni sul salario legale, in assenza di forte decentramento contrattuale, potrebbe facilmente utilizzarlo in modo improprio a fini elettorali, slegandosi quindi dalle dinamiche reali del mercato del lavoro.

Per concludere, se l’obiettivo del governo è l’aumento dei salari e la rinascita dell’economia, dubitiamo che l’introduzione artificiosa di un salario minimo possa funzionare. Per prosperare le aziende hanno bisogno di costi bassi e libertà di prendersi rischi.

Con la crescita economica arriva anche, normalmente, la crescita del salario.

In serenità possiamo dire che il mercato di solito consente di raggiungere gli obiettivi che il governo si prefissa ma che è, strutturalmente, incapace di raggiungere.

Bisogna stare attenti a non lasciarsi fuorviare da esempi esterni su questo argomento: non è tutto ora ciò che luccica.

Luigi Falasconi

WES: bene ma non benissimo

Tra venerdì e domenica scorsi si è tenuto il Warwick Economic Summit, uno dei più grandi eventi di economia organizzati da studenti: tre giorni di conferenze a ritmo serrato, a cui hanno partecipato speaker e studenti da tutto il mondo, tra i quali una delegazione di Studenti Bocconiani Liberali.

Tornati a Milano, pensiamo che ci sia qualche considerazione da fare.

Il WES è frutto di un anno intero del lavoro di un vasto gruppo di studenti, che collabora a stretto contatto con l’università per creare un evento dai buoni contenuti, ma che colpisce sopratutto per lo sforzo logistico che richiede.

Al WES, infatti, partecipano circa 200 studenti esterni, che vengono accolti nell’hotel (sì, un hotel vero e proprio) del campus, dei quali gli organizzatori si prendono cura con notevole efficienza.

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Non solo l’organizzazione ha permesso che il campus sostenesse la presenza di 200 persone in più del solito, ma ha anche fornito diversi momenti di svago, tra colazioni, pause caffè e rinfreschi, fino al Ballo finale (che non è al livello del nostro Galà, ma non è stato affatto male).

Insomma, sotto l’aspetto organizzativo non ci sono critiche da fare e per noi che abbiamo partecipato è stato confortevole come essere in vacanza.

Tuttavia, l’aspetto più interessante del WES sono stati ovviamente gli interventi degli ospiti, che si sono distribuiti tra il pomeriggio e la sera di venerdì, tutto sabato e la mattina di domenica.

Abbiamo ascoltato Letta, il nostro ex primo ministro, parlare del futuro dell’euro, Jean-Francois Copè parlare delle soluzioni economiche e politiche al populismo dilagante, poi il premio Nobel Sir James Mirrlees commentare con tono molto pacato la “problematica” della crescente disuguaglianza e le sue cause, e ancora molti altri tra ricercatori ed economisti.

Gli interventi che abbiamo ascoltato erano fondamentalmente di due tipi.

I più interessanti e istruttivi erano le relazioni dei vari ricercatori che raccontavano dei loro ultimi lavori: abbiamo ascoltato degli ultimi progressi nello studio delle emozioni applicata alla teoria dei giochi, e abbiamo assistito alla presentazione di una nuova tecnica per misurare la felicità dei nostri antenati grazie ai libri che scrivevano.

Abbiamo anche ascoltato un divertentissimo intervento sulle caratteristiche che un leader deve avere in un mondo incerto come il nostro.

Gli interventi più controversi sono stati invece quelli sui problemi economici contemporanei, che a nostro parere sono stati interessanti, ma anche straordinariamente parziali e poco approfonditi.

Letta, ad esempio, ha parlato della crisi dell’euro, ma non ha accennato mezza volta all’insostenibilità del debito di molti dei paesi dell’eurozona; Copè si è lamentato del populismo, ma molto più di questo non ha fatto e non ha fornito grandi soluzioni; Dambisa Moyo, con il suo videomessaggio, ci ha lanciato un confuso segnale di pericolo in merito alla crescente disuguaglianza e alle conseguenze del cambiamento climatico; Sir Mirrlees, ugualmente, è stato deludente, a partire dall’introduzione del suo intervento, che si basava sulla famigerata ricerca Oxfam (che sfoggiava tecniche di misurazione fuorvianti e di cui si è molto discusso) sulla disuguaglianza della ricchezza.

Income inequality, social justice, accountability e climate change sono stati i temi più ricorrenti, nessuno particolarmente approfondito, nè discusso, ma tutti gettati nel mucchio delle preoccupazioni dell’establishment accademico e del suo pessimismo cosmico.

A esser sinceri, non ci aspettavamo altro.

I summit come questo (e Davos ci insegna) non sono fatti per mettere in discussione l’establishment, bensì per educare i giovani a nutrire le stesse preoccupazioni e lo stesso (giusto) senso di responsabilità dei nostri leader attuali.

Non è questa la sede per discutere del fatto che quegli stessi leader che sputano sentenze potrebbero essere i responsabili dei pericoli di cui ora ci avvertono corrucciando la fronte.

Ad ogni modo, abbiamo passato una divertentissima vacanza a Warwick e abbiamo anche imparato molto.

Per questo, consigliamo a tutti di partecipare l’anno prossimo.

Tuttavia, speriamo che in altre sedi ci sarà spazio per interrogarsi sulle opinioni più diffuse e per metterle in discussione, perchè non c’è avanzamento del pensiero senza uno sguardo critico sul mondo, in particolare in una disciplina così inquinata da interessi esterni come l’economia.

Se un’idea è abbracciata dall’establishment non è certo garanzia che sia corretta e come è stato giustamente detto al WES, sta a noi studenti interrogarci sul futuro.

Studenti Bocconiani Liberali

#IowaCaucus

Se siete degli schifosi  individualisti – e, se leggete questo blog, lo siete –  non potete non essere ultra-eccitati per le elezioni del paese che più significa per gli schifosi individualisti.
Tuttavia, se siete veramente degli schifosi individualisti, stanotte avete dormito beatamente, sicuri del fatto che qualcuno avrebbe fatto after al posto vostro, pronto a parlarvi dei primi cento metri della lunghissima maratona nota anche come primarie per le presidenziali USA, quelle che ci porteranno alle elezioni di Novembre, quelle  che sceglieranno il 45° Presidente americano.
Ebbene, avevate ragione.
Se siete su questo blog sarete senz’altro in fissa con concetti quali “libero mercato”, “small govt”, “libertà di scelta” etc etc. Avete fatto bene a dormire sereni? Nì. Ora vediamo perché.
Visto che, se riconosco l’uomo nella foto in testa alla homepage, sarete tutti una manica di repubblicani  incalliti, sbarazziamoci subito dei Democratici, così poi passiamo alle cose serie.
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I Dem che stanotte si son presentati ai caucus non son stati più di quelli che si son presentati nel 2008. Chiamati a scegliere tra Clinton e Sanders, impossibile non capirli.
Battute a parte, l’affluenza non eccezionale avrebbe dovuto avvantaggiare il candidato con la macchina più grossa, e invece…
Quelli che han sfidato la neve per chiudersi dentro una scuola, una palestra, una chiesa o un altro postaccio simile, si son spaccati a metà. Tolto lo zerovirgolaniente del troppo affascinante O’Malley – che si è ritirato dalla corsa -, la gara è stata un ansioso testa a testa tra Clinton e Sanders, rispettivamente fermi a 49,8 e 49,6% mentre scrivo.
Riconteggi e verifiche a parte per l’assegnazione dei (pochi) delegati in ballo, questo è un duro colpo per Hillary. Il pareggio infatti indebolisce chi appariva insormontabile e regala uno slancio enorme, sia per entusiasmo degli elettori, sia per attenzione mediatica, al senatore socialista ed alla sua campagna.
Ecco. Ho usato proprio quella parola. Proprio su questo blog.
Dovreste già aver compreso perché stanotte non era la notte adatta per dormir tranquilli.
Gli staff dei due candidati hanno già iniziato il lavoro di spinning: quello di Hillary si chiede se il risultato di Bernie possa essere considerato una vittoria nonostante un elettorato così congeniale (bianco e sensibile alle posizioni estremiste). La risposta dello staff di Sanders – scontata – butta tutto sempre su Davide e Golia.
Non tutto è perduto però. Nel 2008 l’ex first lady si trovò ad affrontare una situazione simile: Iowa in obamania. Non si perse d’animo e sbancò in NewHampshire. Ok, alla fine la nomination la vinse Obama, ma cerchiamo di non focalizzarci sulle cose macro (= incrociate le dita che non vinca il fuori di testa del Vermont).
E i Repubblicani invece? Che hanno combinato?
Hanno ferito The Donald e l’hanno ferito così brutalmente (i caucus si son svolti con un’affluenza record) che forse, stamattina, ci sta perfino un poco simpatico.
Tranquilli comunque, niente di serio. Noi reaganiani tifiamo per gli attori bellissimi dal sorriso smagliante, non per i fuori di testa.
Sul gradino più alto del podio, col 27 e rotti per cento dei voti, ci è salito Ted Cruz, senatore texano molto di destra, in difetto di phisique du role per la presidenza, odiato da tutta Washington, ma estremamente abile nel conquistare il miglior risultato mai raggiunto da un repubblicano durante i caucus in Iowa.
Un candidato-predicatore che ha occupato la lane dei conservatori evangelisti (vedi posizioni anti-aborto e anti-matrimoni-gay), ha saputo dialogare con i teapartisti e i repubblicani liberisti (vedi crociata contro i sussidi statali all’industria dell’etanolo) e, in generale, ha saputo dire cose molto molto molto di destra in maniera tutto sommato istituzionale.
Bonus: nel discorso della vittoria, attaccando il socialista di cui sopra, ha detto “Eventually you run out of other people’s money.” Che ve lo dico a fare?
Del secondo posto abbiamo già detto. Un deludente 24% per un Trump accreditato come tsunami inarrestabile. Appena la temperatura sarà scesa un po’, appena l’analisi sarà un po’ più affidabile, scopriremo cosa ha realmente danneggiato Trump. Forse i sondaggi basati su americani non davvero interessati alla politica, forse l’assenza dal dibattito dell’altra notte. Chi lo sa.
Il capolavoro comunque sta nel gradino più basso.
Marco Rubio, il candidato repubblicano più “presidenziabile” di tutti ha quasi raggiunto Trump, tallonandolo con un 23% che a momenti pareva potersi trasformare perfino in un secondo posto.
Marco è giovane, reaganiano, ottimista, convinto dell’eccezionalismo americano, arriva da uno degli swing states, la Florida, è amato dal partito, dagli elettori e pure da qualche democratico del Congresso. Nipote di immigrati cubani,  può sfondare nell’elettorato ispanico, unico modo per conquistare la presidenza. E l’ho già detto che arriva da uno degli swing states, la Florida?
La sua strategia, neppure troppo segreta, era ed è quella di arrivare 3° in Iowa, 2° in NewHampshire e 1° in South Carolina e/o Nevada.
Che dire: per ora sta lavorando davvero bene.
Il quarto posto è del neurochirurgo nero più famoso d’America: Ben Carson. L’altra notte, durante il dibattito organizzato da Fox e Google a Des Moines ha recitato il Prologue della Costituzione durante il final statement. Bellissimo.
Quindi ok, Ben è in gamba, un brav’uomo, educato e gentile. Qualche volta è fuori dalle righe, ma non è questo il problema: i dati economico-finanziari della sua campagna ci dicono che la sua corsa non è quella della presidenza, quindi speriamo che faccia un buon uso degli 8 delegati vinti stanotte e grazie e arrivederci.
Il quinto posto è una di quelle cose che ti scalda il cuore e che crea una piccola storia nella storia. Subito dietro il 9% di Ben Carson troviamo Rand Paul con un sorprendente 5%.
Sappiamo tutti che la lane dei libertarians non è sufficientemente larga per portare il son of Liberty alla nomination, però che dire: ha conquistato un delegato e noi libertarians e conservatarians non possiamo che essere felicissimi.
Rand è il vero came-back kid.
Da qui in poi invece è una valle di lacrime.
Jeb Bush, il povero Jeb Bush, che pure aveva dato ottima prova di se durante il dibattito dell’altra sera, s’è fermato al 2,8%. Forse ha sbagliato ciclo politico, forse ha sbagliato l’impostazione dell’intera campagna sin dall’inizio. Difficilmente si riprenderà.
Giusto per infierire: facendo due calcoli sulle spese di “Right to Rise”, il super PAC vicino a Bush, ogni voto ottenuto stanotte è costato una roba come 25 mila dollari.
There ain’t no such thing as a free vote, praticamente.
Carly Fiorina, ex CEO della HP, ha fatto peggio ancora: 1,9%.
Idem John Kasich, ex governatore dell’Ohio. Repubblicano ultra-moderato.
Mike Huckabee, lo zio strano del gruppo, ha preso l’1,8% delle preferenze ed ha interrotto la corsa.
Anche Chris Christie, il RINO per eccellenza, governatore del New Jersey, 1,8%.
Rick Santorum 1%.
Jim Gilmore, non pervenuto.
Ora tirate un sospiro di sollievo e ricordate che la corsa dura diversi mesi e che nel 2008, in Iowa vinse Huckabee; nel 2012, Rick Santorum.
Detto questo, la corsa è ufficialmente cominciata.
Alessandro Cocco